mercoledì 3 giugno 2015

Bagni e spogliatoi

Una delle prime cose che ci si chiede quando si ha a che fare con le persone transgender è: “In quale bagno pubblico le mandiamo?”

Prima di rispondere, conviene rendersi conto che la risposta non è così semplice nemmeno per le persone cis.

Prendiamo ad esempio quello che accadeva nel Marocco dell’infanzia e dell’adolescenza della scrittrice Fatima Mernissi.

A Fez, la sua città, c’era ovviamente (ed immagino che ci sia ancora) l’hammam, il bagno turco, diviso tra uomini e donne.

Ma la scrittrice ci avverte che i bambini entravano nella sezione femminile, nudi in mezzo alle donne nude di tutte le età.

Quand’è che si decideva che era ormai il caso di mandarli in mezzo agli uomini adulti?

Quando alla curiosità infantile si era ormai sostituito il desiderio adulto.

Fatima Mernissi ricorda che un giorno una frequentatrice del bagno turco si lamentò che suo fratello [quello della scrittrice] era stato portato in mezzo alle donne, sebbene egli non fosse più un ragazzo.

Egli infatti, affermava quella donna, stava guardandole il seno proprio come glielo guardava suo marito.

Il ragazzo ribatté con una battuta irriverente che fece ridere tutte quante, ma da quel momento in poi non entrò più nella sezione femminile.

In Italia, invece, che accade?

Non ho mai frequentato una sauna o bagno turco; so quello che accade nelle piscine pubbliche, che un tempo frequentavo assiduamente.

Lo spogliatoio femminile è assolutamente tabù per gli esseri pene-positivi; quello maschile è aperto agli esseri vulva-positivi, purché validamente giustificati.

La tipica giustificazione è quella della mamma o della nonna che accompagna il figlioletto od il nipotino nello spogliatoio maschile.

Altra giustificazione è quella del babbo che porta la figlioletta in piscina, e sa che non la passerebbe liscia se entrasse con lei nello spogliatoio femminile.

Non mi è mai capitato di vedere addetti alle pulizie maschi nelle piscine che frequentavo, e le addette femmine entravano anche negli spogliatoi maschili, durante l’orario di apertura, sapendo che potevano anche incontrare un uomo che si faceva la doccia nudo – cosa vietata, ma non infrequente.

Il confronto è molto istruttivo: nel Marocco della Mernissi, la segregazione è per generi; nelle piscine italiane che ho frequentato, è per sessi.

In Marocco, finché non si chiede al ragazzo di comportarsi come un uomo adulto, lo si fa entrare tra le donne dell’hammam; è solo quando il ragazzo mostra una caratteristica adulta (il desiderio) anziché infantile (la curiosità), che ci si rende conto che lui deve ora stare fra gli uomini per essere educato da loro.

E, che io sappia, la shari’a prevede che il bimbo venga educato dalla mamma fino a sette anni; poi viene circonciso ed affidato al babbo.

In Italia il problema è la “fallofobia”: più che di spogliatoi maschili e femminili, si dovrebbe parlare di spogliatoi pene-positivi e pene-negativi. Il corpo maschile viene considerato pericoloso e va contenuto in appositi spazi, in cui talvolta può far capolino anche il corpo femminile.

Poiché la segregazione tra uomini e donne viene praticata in modo diverso a seconda dei luoghi e dei tempi, direi che risponde ad esigenze culturali, e può tranquillamente adeguarsi al mutare delle situazioni.

La segregazione tra i sessi è particolarmente umiliante per le persone transgender, in quanto viene loro bruscamente rammentato che la loro identità di genere non ha alcuna importanza, e vengono costretti a classificarsi in base ad una caratteristica che non hanno scelto ed attualmente è molto difficile mutare.

Nei paesi più evoluti si usano cabine chiuse, cosicché la segregazione diventa superflua, e si appendono cartelli come questo:

Raffaele Yona Ladu

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